lunedì 28 settembre 2015

Un sogno chiamato Terra


Nel 1121 un uomo di nome Johachim si recò presso le coste dell'Africa settentrionale. L'uomo, un portolano molto famoso nelle corti del vecchio continente aveva deciso di trascorrere qualche giorno nei territori dell'antico region d'Egitto per disegnare alcune delle maestose rovine che ancora si potevano vedere ai margini del grande deserto.
Quando la sua nave attraccò nel porto di Alessandria, notò immediatamente la maestosità della città che brulicava di mercanti e avventurieri. Attraversò la via principale e si diresse verso il margine della metropoli dove un tempo nasceva la vecchia Alessandria.

Una volta raggiunta la periferia, dove le case si diradavano lasciando lo spazio a campi e pascoli, vide spuntar dal terreno colonne infrante e capitelli disposti a casaccio. Si sedette su una roccia e preso una pergamena e un pennino iniziò a disegnare ciò che restava di quella costruzione mastodontica.
Di tanto in tanto si alzava avvicinandosi alle parti di costruzione che giacevano semisommerse nel terreno, ne studiava i glifi, gli intagli e la lavorazione, poi tornava a sedersi e riprendeva a disegnare.
Quando il sole aveva da tempo passato la mezza mattina vide un fanciullo avvicinarsi, smise di disegnare e alzando la mano destra, come aveva visto fare ai cittadini di Alessandria lo salutò cordialmente.
Il ragazzo rispose al saluto e si accostò al disegnatore curiosando tra i suoi schizzi.
"Dunque voi siete un disegnatore?" domandò pur sapendo già la risposta.
"Lo sono" disse Johachim mostrando alcuni dei suoi disegni "ma dimmi, cosa giace sotto la terra, e a cosa appartenevano queste rovine?"
"L'antica biblioteca era immensa e conteneva migliaia di rotoli del sapere degli antichi. Venne distrutta e ricostruita parecchie volte, poi le fu dato il colpo di grazia e questo è ciò che resta di quella imponente struttura".
L'uomo si guardò attorno mentre il ragazzino con voce sognante spiegava come fosse composta la biblioteca e tentava di riportare alla luce i fasti di quelle epoche passate descrivendo i fasti degli arredi e i rotoli che erano riposti in alti scaffali.
"Si dice che di quando in quando, coloro che curiosando passando da queste parti, restino affascinati dal luogo e trovino un tesoro, che dovranno custodire molto gelosamente".
Johachim guardò le colonne sbrecciate, i capitelli infranti e alcuni stralci di muri che emergevano dalla terra sassosa, sorrise e poi tornò a guardare il ragazzo che però, con suo grande stupore, non c'era più.
Si alzò e corse in lungo e in largo cercando con lo sguardo il giovinetto, ma non vide anima viva tutto intorno a sé. Così quando stava per ritornare alle sue pergamene e ai suoi pennelli vide il collo di un anfora spuntare dal terreno. Era di terracotta come tante ed sembrava ancora sigillata, si chinò sul manufatto e con le mani iniziò a scavare intorno ad essa, poi, dopo aver ammonticchiato sassi e terreno da una parte, riuscì ad estrarre l'anfora.
Di aspetto anonimo non era molto pesante e scuotendola non sembrava contenere nulla. L'uomo la prese tra le braccia delicatamente come fosse un bimbo in fasce, poi la nascose sotto il lungo mantello, quindi, si avvicinò al sasso dove si era seduto per disegnare e raccolse le sue cose.
Quanto tornò ad attraversare la città i mercanti stavano smontando le bancarelle e il sole lambiva all'orizzonte le acque del mare disegnando sulla superficie appena increspata tonalità rossastre.
Risalì sulla barca e disse ai marinai di non disturbarlo, "fate rotta a casa, voglio arrivare prima che sia l'alba".
Entrò nella sua cabina e sbarrò la porta, poi, sedendosi alla sua scrivania prese l'anfora e la esaminò.
Era ancora chiusa, sigillata, come si faceva per le anfore contenenti vino e granaglie, il tappo di sughero era ben conservato e sopra della ceralacca blu era stata fatta sciogliere ricoprendo tutta la superficie e buona parte del collo.
Prese un coltello e iniziò ad incidere la ceralacca, il lavoro di cesello durò diverso tempo, ma alla fine cedette sotto i suoi colpi e il sughero emerse dalla sostanza blu che lo ricopriva.
Johachim con la punta del coltello perforò il tappo e dopo averlo scalfito in più punti prese a sbriciolarlo.
Non era ancora riuscito ad aprire l'anfora che avvertì dei passi fuori dalla cabina e poi qualcuno bussò alla porta.
"Vi devo portar qualcosa da mangiare?" disse una voce profonda che riconobbe come quella di Amiur.
"No, grazie, appena ho finito vi farò chiamare" rispose Johachim riprendendo a lavorare al tappo di sughero.
Gli ci volle quasi un'ora prima di aver la meglio su quella chiusura, poi, finalmente, vide il contenuto dell'anfora.
Si trattava di sei pergamene arrotolate, sulle quali erano disegnate delle forme strane, il colore era ocra e dovevano essere molto antiche, le trattò con cura stendendole e osservandole, poi gli venne un guizzo, un'idea e riconobbe in tre di esse qualcosa che aveva già visto, non proprio uguale ma molto simile.
"Ma certo, si tratta certamente delle terre emerse che conosco e che sono già state disegnate". Si alzò e prese a rovistare nello scaffale che aveva fatto costruire sulla parete a est della sua cabina. Lasciò cadere alcune pergamene mentre iniziò a srotolarne altre, infine la sua ricerca ebbe successo, stese sul tavolo un foglio e confrontò i disegni che si dimostrarono molto simili.
"E gli altri disegni?" si chiese in un sussurro.
Accostò le pergamene tentado di comporre il rompicapo, da principio non vide nulla che sembrò avere un senso, se le altre tre dovevano essere isole a lui sconosciute, erano molto grandi e cambiavano totalmente la sua visione del mondo in cui viveva.
Poi, continuando a cambiare l'ordine delle pergamene rimaste sul tavolo, scoprì alcuni strappi che coincidevano, probabilmente tempo addietro doveva essere stata una pergamena unica.
Accostò le sei pergamene e ciò che vide lo sbalordì, poi bussarono nuovamente alla porta ed egli, frettolosamente ripose le pergamene nell'anfora.
"Comandante, andiamo incontro a un fortunale, si tenga ben stretto".
In effetti non si era accorto che da lì a qualche tempo la nave aveva preso a ballare, troppo intento a ciò che stava studiando. A fatica arrivò alla porta, tirò i cantenacci e la aprì, fuori il cielo era divenuto scuro, il vento gonfiava le vele e una si era già lacerata. Ordinò di ammainare le vele restanti e gli uomini corsero da una parte all'altra dell'imbarcazione mentre le onde alte diversi metri si rovesciarono sul ponte portando con sé uomini, casse e barili.
Il fortunale raggiunse il suo apice e più di una volta la nave rischiò di essere rovesciata, poi, finalmente, il vento si placò e le onde tornarono al loro stato naturale.
Johachim, dopo essersi assicurato che gli uomini rimasti sulla nave stessero bene, tornò nella sua cabina, cercò l'anfora mettendo a soqquadro tutta la stanza, ma di lei non trovò traccia.
Una volta raggiunto il porto della sua città, con più calma, fece svuotare la nave e lui personalmente si prodigò a svuotare la sua cabina e a fare un elenco di tutti gli oggetti ivi contenuti ma dell'anfora non fu mai rinvenuta traccia.
Tentò più volte di raccontare la storia, sia ai suoi figli che ai nipoti e infine si sfogò anche con alcuni lupi di mare ma nessuno volle mai credergli, e quando tentò di ridisegnare ciò che ricordava di aver visto, venne deriso, troppo erano le terre che si prodigava a disegnare e troppo grandi. Fu così che l'uomo, ormai vecchio, decise di passare gli ultimi suoi giorni di vita ad Alessandria con la speranza di ritrovare l'anfora, lì dove era sicuro di averla trovata.

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